Mi chiamo Jennifer Johnson, ho 42 anni e vivo in Matasia (Kenya), con la mia domestica, Nancy, i miei 5 cani (Ben, Brody, Boss, Maezie e Mango) e i miei 4 gatti (Butterfly, Ninja, Raevyn e Poe).
Ho sempre adorato l’Africa, da quando a 3 anni i miei genitori mi portarono a Disney World.
Salimmo su una giostra con una barca che navigava attraverso diversi stati di tutti i continenti.
Mi innamorai dell’interpretazione che Disney aveva dato di come i bambini vivono in Africa, anche se con il senno di poi, per nulla simile alla realtà: una iena preferirebbe mangiare e non giocare con un bambino, ma quell’esperienza aveva piantato un seme in me che sarebbe cresciuto e fiorito negli anni.
Non c’era, però, nessun programma di vita nel venire in Kenya, era solo un sogno di infanzia che volevo realizzare.
IL MIO VIAGGIO IN KENYA
Dovevo restare solo per i 6 mesi permessi dal visto turistico e poi, realizzato il mio sogno, tornare a casa (negli USA) e organizzare un’altra magnifica avventura. Il piano rimase lo stesso per i primi 3 mesi in Kenya.
Ad essere onesta può essere difficile abituarsi a questo paese, soprattutto se si è in solitaria e non sotto l’ala di un’organizzazione; non era tutto rose e fiori e io iniziavo ad essere stanca quando un’esperienza cambiò la mia vita per sempre.
Dio mi aveva preparata per tutta la vita ad essere una sorta di missionaria in ambito ospedaliero: mia madre mi diceva sempre che nessun altro bambino amava visitare gli ospedali quanto me.
Quando capitava che con i miei genitori dovessimo andare a far visita a conoscenti in ospedale o in una casa di cura, dovevano tenermi a bada perché io non mi intrufolassi in qualche stanza e cercassi di far sorridere la persona che vi trovavo all’interno. È capitato che i miei genitori mi trovassero mentre cantavo, ballavo o semplicemente parlavo con uno sconosciuto: ovviamente tutto ciò faceva preoccupare mia madre, ma era naturale per me.

UN INCONTRO HA CAMBIATO LA MIA VITA
Ero seduta al tavolo nel salotto del mio amico Jonny, ero sconfitta: avevo provato disperatamente a trovare un luogo dove potessi fare volontariato, ero stata in orfanotrofi, chiese e persino comunità di aiuto per lebbrosi.
Nulla faceva al caso mio.
Mi sembrava di non avere più una ragione per continuare la mia esperienza in Kenya.
Jonny, vedendomi triste, mi consigliò di andare a visitare l’ospedale pubblico dove il suo amico Ben lavorava come assistente sociale.
Dire che restai scioccata da ciò che vidi non rende il mio stato d’animo; le persone che mi trovai di fronte non sembravano umane, avevano occhi vitrei e nessuna espressione sul volto mentre emettevano versi indistinguibili; alcuni avevano saliva che colava fino a sotto il collo, molti erano semi-nudi, altri ancora dormivano sul pavimento.
E a proposito del pavimento…c’erano piccole pozze di urina sparse e sui muri c’era sangue secco dove i pazienti avevano picchiato la testa a causa delle medicine ingerite o della noia (l’unico stimolo era una televisione dentro ad una specie di teca).
La caposala ci guidò per mostrarci il reparto e ci raccontò nei dettagli perché ogni pazienti era stato ammesso.
Le stanze non avevano le porte, ma sbarre come prigioni. Tutto ciò che queste persone potevano fare era stare seduti lì, mentre una completa estranea veniva informata sulle loro storie e sul loro stato psicologico.
Ero sconcertata, ma nonostante ciò avevo il desiderio di tornare il giorno successivo.
Ecco come è iniziato un viaggio che dura quasi da 10 anni.
NULLA MI FA SENTIRE COSÌ.
In questi anni ho provato in diversi modi ad aiutare diverse persone con problemi fisici o psicologici.
Per un certo periodo ho ospitato persone a casa mia per dargli un luogo sicuro prima che riuscissero ad essere ammessi in un ospedale.
Ho anche provato ad aprire una struttura dove donne sieropositive potessero avere/riscoprire una vita normale e essere assistite allo stesso tempo.
Funzionò per un periodo, ma niente mi faceva stare bene e sentire realizzata come visitare i pazienti in ospedale: loro erano capaci di donarmi felicità più di quanto io non potessi fare per loro.
Anche io ho sofferto e soffro di disturbi psichici: grave depressione e disturbo della personalità, ma è impossibile per me pensare ai miei problemi quando consolo un ragazzo ustionato dal proprio padre. Non mi preoccupo dei miei guai quando stringo la mano di una bambina durante i suoi ultimi momenti di vita prima di volare in paradiso. Non penso a me stessa quando siedo sul pavimento vicino ad un parente che si accascia per la disperazione. Non mi concentro su nient’altro se non la persona davanti ai miei occhi.
DIO MI FA VEDERE SOLO LA PERSONA, NON LA MALATTIA.
Quando qualcuno mi dice che sono coraggiosa e che loro non potrebbero fare la stessa cosa, io rispondo così:
Visitare persone ospedalizzate è una chiamata divina per me. Quando Dio chiama non puoi far altro che rispondere.
A volte non noto nemmeno l’infermità di una persona: Dio mi fa vedere semplicemente le persone ed io mi lascio guidare da lui per dare al paziente ciò di cui ha bisogno per sentirsi amato e confortato.
Per esempio, un pomeriggio stavo facendo volontariato per un’associazione che fornisce cure palliative in una clinica medica.
Era una giornata molto calda e tutte le finestre erano chiuse.
Ad un certo punto una donna entra portandosi dietro la scia di un odore pungente, così forte da far venire ai presenti le lacrime agli occhi. Essendo abituata a frequentare ospedali capii subito che quell’odore era l’odore di gangrena.
Quella donna che era appena entrata aveva un tumore al seno che non poteva permettersi di curare. C’erano grosse ferite aperte su entrambi i suoi seni con carne morta all’interno: senza usare mezzi termini i suoi seni erano come marci.
I medici e lo psicologo delle cure palliative uscirono dalla stanza senza nascondere il loro disgusto, uscendo chiusero la porta, che era l’unica fonte di aria fresca, alle loro spalle ed io iniziai a sentirmi nauseata.
L’odore era così forte che se non fossi uscita sarei potuta svenire, ma la donna cominciò a piangere in silenzio.
Io, invece, in silenzio pregai. Pregai Dio di usarmi per dare conforto alla povera donna. Non appena finii di dire “Amen” il mio olfatto era come se non funzionasse più: non c’era più cattivo o buon odore…non c’era proprio nessun odore.
Mi avvicinai a lei e presi la sua mano, lei mi guardò e sorrise, mentre le lacrime ancora scorrevano sul suo viso.
Con il mio poco swahili le dissi che Dio la amava e che volevo pregare con lei. Insieme pregammo, cantammo inni e ci tenemmo le mani in silenzio ( a volte fa bene anche il silenzio).
Ritornati i dottori erano stupiti e quando mi chiesero come avessi potuto stare vicino a quella donna semplicemente risposi che Dio mi aveva aiutata.

COME FACCIO A NON FARMI SOPRAFFARE DALLA SOFFERENZA CHE VEDO?
Dio mi ha dato questa dote, ma soprattutto questa passione. Quando hai passione puoi superare situazioni che altrimenti sarebbero insormontabili.
Pensavo di essere strana o pazza perché potevo confortare bambini morenti per tutto il giorno e poi tornare a casa, cenare e dormire.
Perché non piangevo o sentivo il peso come chiunque altro avrebbe fatto?
Cosa c’era di sbagliato in me per cui non provavo tristezza o sofferenza nel frequentare un ambiente così deprimente e stressante emotivamente?
Poi, parlando con altri missionari, capii che se avessi provato le stesse cose che chiunque altro avrebbe provato non avrei potuto fare ciò che Dio mi aveva chiamata a fare.
Invece io mi divertivo.
Sani o morenti i bambini sono bambini: ridiamo, giochiamo, cantiamo, guardiamo film, creiamo e dipingiamo. Non mancano i momenti di dolore o tristezza, ma cerchiamo di concentrarci sui momenti felici, pensiamo agli attimi allegri e speriamo di averne altri.
E i momenti felici tornano sempre.
Non mi prendo il merito, ciò che faccio è il volere di Dio.
I pazienti sono quelli degni di merito: i bambini continuano a giocare con i loro giochi con sottofondo di grida e pianti di altri bambini a cui viene prelevato il midollo o inferta una puntura. Vedono i corpi dei loro amici coperti con un lenzuolo e portati via chiedendosi quando toccherà a loro. Sono loro quelli che affrontano dolore e paura da soli, senza un adulto che li rassicuri.
Io torno ogni sera a casa dove mi aspetta un pasto caldo ed il mio letto morbido, lontana dal dolore e le paure.
Loro sono i guerrieri. Loro sono i veri eroi.
Io ne sono fiera e gli porto un infinito rispetto.
IO SONO FORTUNATA.
Io mi ritengo estremamente fortunata ad essere cittadina di una nazione che fornisce ottimi servizi a persone che hanno a che fare con problemi dovuti al loro stato psicologico.
Oltre all’aiuto ricevuto dalle istituzioni del mio paese ho anche avuto molti angeli custodi nella mia vita che mi hanno guidata, incoraggiata ed inspirata ad essere la me migliore.
Scrivo queste parole in Ohio, USA, dalla taverna della casa di una coppia che mi ha istruita, esortata e amata per molti anni come fossi loro figlia.
Sono stata fortunata!
E per questo ciò che più desidero è fare lo stesso per gli altri.
IL PROGETTO M.A.R.K.
Recentemente ho inaugurato un’organizzazione locale chiamata M.A.R.K (Mental health Awareness and Rehabilitation in Kenya) Project.
Gli ho dato questo nome in memoria del mio caro zio Mark che si suicidò dopo aver sofferto di gravi problemi psichici.
La mia idea iniziale di M.A.R.K era un gruppo di uomini e donne con l’obiettivo di eliminare lo stigma legato alla salute mentale in Kenya condividendo le proprie storie personali e i propri sforzi per superare i loro problemi di natura psicologica.
Ma si e’ trasformato in molto di più e più velocemente di quanto mi aspettassi: ora abbiamo gruppi di supporto gratuito e collaboriamo con centri per la cura di malattie psichiche.
Nonostante i grossi risultati raggiunti, il mio sogno resta quello di creare una cooperativa agricola per persone con malattie mentali in cui possano anche seguire corsi di cura e accettazione personale e di abilità manuali.
In questi anni ho imparato a non dubitare di me stessa e dei piani che Dio ha per me. Ho imparato a vivere giorno per giorno. Molti miei sogni sono andati in fumo, altri si sono avverati. Ho imparato che se voglio qualcosa a tutti i costi devo provarci, meglio tentare e fallire piuttosto che spendere il resto della mia vita a chiedermi cosa sarebbe successo se non mi fossi arresa troppo presto.
Non mi pento di nulla di ciò che ho fatto.
Tra missionari qui in Kenya abbiamo un detto che dice:
“Puoi mangiare un elefante solo un morso alla volta.”
Se con l’auto di Dio posso fare la differenza nella vita di una persona, se posso aiutarla a capire che agli occhi di Dio è perfetta e che è amata esattamente per ciò che è, questo è sufficiente per me.
Tu sei magnific*. Tu sei amat*.